include("menu_sx_inner.php"); ?>
La pizza non è stata inventata a Napoli. Se è per questo, nemmeno il babà. Il caffè, che appartiene all'archetipo (e allo stereotipo) partenopeo, a Napoli c'è arrivato da fuori. E altrettanto dicasi del pomodoro.
Tutto questo non toglie una virgola alla leggendaria creatività dei napoletani. Al contrario, la esalta; soltanto un popolo dotato di enormi risorse è in grado di trasformare il vecchio in nuovo.
E' quello che i napoletani sono riusciti a fare col babà, col caffè, col pomodoro ("'a pummarola"): e con la pizza. Grazie alla "creattività" e al gusto dei napoletani, questi alimenti hanno conosciuto una nuova vita, assurgendo ai più alti livelli di bontà e di popolarità.
Provate a ricordare al babà la sua origine polacca, e al pomodoro i suoi ascendenti peruviani; vi guarderanno storto, perché ormai si sentono (e sono) napoletani a tutti gli effetti.
Chiedersi chi ha inventato la pizza è come cercare l'inventore del pane. Perché questo, in origine, era la pizza: un impasto di acqua, lievito e farina di frumento, lavorata a mano e poi cotta al forno. Insomma una focaccia, che di pane è praticamente un sinonimo.
Prima di addentrarci in particolari che interessano il palato, restando in zona, occupiamoci di quelli che hanno a che fare con la lingua.
"Pizza" deriverebbe da "pinsa", participio passato del verbo latino "pinsere": schiacciare. Oppure dal longobardo "bizzo-pizzo", da cui il tedesco moderno "bissen": boccone.
Alcuni ritengono invece che "pizza" derivi dal greco "pitta", termine di origine albanese: l'incrocio tra "pitta" e "pezzo" avrebbe generato (la) "pizza". Per fortuna.
Oggi "pizza" lo si trova scritto nei menu e nelle insegne delle pizzerie di tutto il mondo, che sono più numerose degli astri del firmamento.
La prima testimonianza scritta della parola "pizza" risale al 997, nel latino volgare di Gaeta (tra Napoli e Roma). Il termine compare poi in scritti rinvenuti a Penne, Roma, L'Aquila e Pesaro.
Il nome "pizza" nasceva allora, ma la focaccia a cui il nuovo termine corrispondeva era già in circolazione da secoli.
Agli albori della civiltà, i chicchi di grano venivano pestati alla bell'e meglio, e poi arrostiti su pietre roventi. Pare che il primo forno, di struttura conica, lo abbiano inventato gi Egizi: col suo aiuto, la cottura della focaccia lievitata naturalmente era cosa fatta.
La "maza": la focaccia impastata, era diffusa nel bacino del Mediterraneo già molto prima della nascita di Cristo. E continuò ad essere presente per tutto il medioevo. Napoli non faceva eccezione, ma pure la "pizza" che vi si mangiava non faceva eccezione: era infatti una focaccia simile a quella che si mangiava dalle altre parti.
Qualche differenza comincia ad emergere tra il 500 e il 600: in questo periodo si ha notizia a Napoli di una "pizza alla Mastunicola", con foglie di basilico (che a Napoli si chiama tuttora "vasenicola"), strutto, formaggio e pepe.
Di poco successiva pare sia la "pizza ai cicinielli": sulla pasta venivano messi questi pesci troppo piccoli per essere venduti, in stretta osservanza della regola vigente tra i poveri, che non si butta via niente.
Più che la preistoria della pizza, questa è la pre-storia: quella vera e propria comincia quando la pizza diventa "pizza napoletana"; 'a pizza napulitana.
La cosa accade quando la pizza si incontra col pomodoro. Il loro sposalizio è molto più recente di quanto si creda: arrivato in Europa del Perù alla fine de 500, il pomodoro ci mise circa 200 anni per passare dal salotto alla cucina: per trasformarsi da pianta ornamentale in delizioso condimento, e nutrimento.
Nella seconda metà del 700 la pizza rotonda, con sopra un po' di pomodoro, ma anche con aglio e olio a crudo, o a cotto, era ormai un cibo diffusissimo in tutta Napoli.
Lo era per molti motivi: per familiarità (il pomodoro, i latticini, la farina, il basilico erano ingredienti presenti cospicuamente nella cucina napoletana, e dunque molto riconoscibili); per economicità; per capacità di indurre sazietà (la pasta della pizza continua a lievitare nello stomaco, e quindi riempie); e (non da ultimo) perché era buonissima.
La mangiavano i poveri e i ricchi, i nobili e i plebei, che spesso abitavano nelle stesse strade, nelle vicinanze di Palazzo Reale. Di frequente, nello stesso palazzo: i poveri al piano terra, i nobili ai piani alti.
Dai forni in cui veniva cotta la pizza usciva un ragazzino con un contenitore in bilico sulla testa: la "stufa", in cui le pizze venivano tenute in caldo, per essere vendute in giro.
Solo più tardi, per poter mangiare la pizza appena sfornata, nello stesso locale del forno furono sistemati dei tavoli; nacquero così le prime pizzerie. Nella prima metà dell'800 Alexandre Dumas, il famoso autore dei "Tre moschettieri", che con Napoli aveva una lunga consuetudine, descrive nel "Corricolo" i vari tipi di pizza che si potevano allora degustare in città: all'olio, al lardo, alla sugna, al pomodoro, al formaggio, ed altre ancora. I forni, anche quando avevano all'interno dei tavoli, vendevano sempre (e lo fanno ancora) la pizza "da asporto": il passante se la faceva dare, la piegava in quattro, "a libretto", e se la mangiava andandosene in giro per le sue faccende.
Già allora, insomma, a Napoli ci si abbuffava di pizza "napoletana". Che però era ancora limitata alla città, e ai suoi immediati dintorni.
Ad aprire alla pizza dei mercati che non si sono mai più richiusi fu una brillantissima operazione di marketing messa a segno nel 1889 da un pizzaiolo napoletano che allora andava per la maggiore: Raffaele Esposito.
L'occasione fa l'uomo leader: in questo caso fu la visita a Napoli dei regnanti dell'epoca.
La Regina Margherita, avendo sentito parlare della famosa pizza napoletana, aveva chiesto al regale marito (Umberto I) di poterla assaggiare. Convocato nella Reggia di Capodimonte insieme alla moglie donna Rosa (secondo alcuni la vera esperta nell'arte della pizza), come nelle favole Esposito presentò alla Regina tre pizze: la prima con "sugna" (strutto), formaggio e basilico; la seconda con aglio, olio e pomodoro; la terza con i colori della bandiera italiana. Il bianco (la mozzarella), il rosso (il pomodoro), e il verde (il basilico).
Fu questa pizza, la terza, a suscitare l'entusiasmo della regina, che volle ringraziare il bravo pizzaiolo per iscritto. Per completare l'operazione, a Raffaele Esposito non rimase che dedicare questa pizza alla regina: nacque così la margherita, che fece la fortuna del suo locale, e di tutti quelli che la prepararono. E che la preparano tuttora.
Una brillantissima operazione d'immagine, alla quale nulla toglie il fatto che la pizza pomodoro, mozzarella e basilico si facesse a Napoli da più di cinquant'anni: un certo Riccio, nel suo libro "Napoli, contorni e dintorni" ne fa già menzione nel 1830.
E nel 1866, Francesco De Bourcard, nel suo "Usi e costumi di Napoli" insieme ad altre pizze ne cita una con "basilico e muzzarella".
A dirla tutta, la regina Margherita di Savoia pare non sia stata nemmeno la prima regina a degustare la pizza mozzarella, pomodoro e basilico: prima che il Regno delle Due Sicilie cedesse il passo al Regno di Sardegna, la regina Maria Carolina di Borbone andava ghiotta della pizza bianca, rossa e verde, senza che questi colori alludessero ad alcuna bandiera.
La stampa dell'epoca diede molto risalto alla nascita della pizza margherita, che cominciò a diffondersi al di fuori della Campania.
Per il boom si dovette aspettare il secondo dopoguerra: l'emigrazione della forza lavoro dal Sud al Nord d'Italia portò con sé l'apertura di un gran numero di pizzerie in quelle contrade.
Pochi cibi come la pizza sono entrati nella cultura come elementi (e alimenti) distintivi di un popolo e di una cultura. Nel mondo "pizza" non vuol dire soltanto Napoli, ma più genericamente Italia, ed italiano.
Nelle canzoni, i riferimenti alla pizza si sprecano: da "E tu vuliv'a pizza" di un festival della canzone napoletana degli anni 60, cantata da Aurelio Fierro (e fin qui, tutto normale) insieme a un improbabile Giorgio Gaber; a Pino Daniele, ecc.